Con decisione del 19/2/2015 nella procedura eUDRP di riassegnazione di nome a dominio n. D2014-2257 (che puoi leggere integralmente qui), il Mediation and Arbitration Center della WIPO ha disposto la riassegnazione del nome a dominio leathercrown.com a favore del ricorrente (Complainant).
Il ricorso
La procedura originava dal ricorso (Complaint) proposto da una ditta e da una società italiane[1] contro un soggetto statunitense (Respondent), CEO di un importante Registrar, che aveva registrato il nome a dominio in oggetto e lo aveva utilizzato per la pubblicazione di una link farm, ossia di un sito web che postava un elenco di link, nel caso di specie tutti relativi a siti nel campo delle calzature.
Il sito web presentava inoltre sul proprio header il messaggio “This domain may be for sale”, ossia “Questo dominio è in vendita”.
Il ricorso si fondava sugli omonimi marchi figurativi di parte ricorrente[2], rispettivamente nazionale italiano ed internazionale con designazione USA, registrati con rivendicazione di prodotti in classe 25 nell’ambito delle calzature e dell’abbigliamento, ed in particolare sosteneva come nel caso sussistessero tutti e tre i requisiti richiesti dalla policy di riassegnazione:
il dominio in questione era identico o comunque confusoriamente simile al marchio del Complainant;
il Respondent non aveva alcun diritto o legittimo interesse ad utilizzare tale segno;
sia la registrazione, sia l’uso del dominio, risultavano in malafede.
La decisione
Il giudicante (Panelist), ritenendo preliminarmente che il Respondent aveva risposto oltre il termine massimo, cosicché le proprie deduzioni non erano formalmente prese in considerazione, riteneva di dover disporre la riassegnazione a favore del ricorrente, per i seguenti motivi.
Sul giudizio di comparazione
Il dominio era consuforiamente simile alla parte verbale del marchio, predominante rispetto alla parte figurativa.
In tale giudizio veniva ovviamente preso in considerazione solo il nome a dominio di secondo livello, non essendo rilevante quello di primo livello, ossia il suffisso “.com”.
Sull’assenza di diritto del Respondent
Sebbene in linea generale non vi fosse alcun ostacolo a che il titolare di un nome a dominio ne facesse uso per un sito web commerciale di pay-per-click, soprattutto nel caso in cui il dominio fosse costituito da parole di senso comune ed i link avessero ad oggetto prodotti e servizi rappresentati da quelle stesse parole, nel caso in esame i link riguardavano peraltro proprio l’ambito dei prodotti rivendicati dal marchio registrato[3].
Inoltre molti link erano in lingua italiana e quindi in realtà erano rivolti al pubblico di riferimento del marchio.
Per quanto detto, il Respondent non aveva alcun diritto ad utilizzare il dominio in oggetto, non potendosi sostenere (e non essendo rilevante) che i link potessero essere frutto di un sistema automatico di pubblicazione, essendo il titolare del sito responsabile (oggettivamente) per quanto veniva ivi pubblicato.
Sulla malafede
In via generale, la registrazione di un nome a dominio con l’intento di rivenderlo al titolare del marchio era un primissimo esempio di malafede, al pari del suo utilizzo per fini di lucro (“commercial gain”), ciò in particolare qualora la dinamica inducesse il pubblico degli utenti all’erronea convinzione che titolare del marchio e titolare del sito fossero tra di loro collegati commercialmente.
Nel caso in esame sussistevano entrambe le ipotesi di malafede: il sito web del Respondent vedeva infatti pubblicato il messaggio “This domain may be for sale” e la link farm aveva, per sua natura, un sistema di pay-per-click che generava al titolare del sito un “gettone” per ogni click dell’utente sui link pubblicati.
Ne conseguiva che anche il terzo dei requisiti previsti dalla policy risultava comprovato ed il dominio doveva essere assegnato al ricorrente.
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[1] La procedura era avviata da due ricorrenti, rispettivamente il titolare del marchio ed il suo licenziatario, che lo usava per la vendita di calzature offline ed online tramite un sito e-commerce.
[2] I marchi figurativi riportavano la dicitura “Leather Crown” sormontata da una corona.
[3] I prodotti rivendicati dal marchio del Complainant non avevano alcun punto di contatto con il segno verbale evidenziato nel marchio stesso (esempio di marchio forte).