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La pubblicità ingannevole


La pubblicità viene definita dal decreto legislativo 145/2007 come qualunque forma di messaggio che sia diffuso nell’esercizio di un’attività economica allo scopo di promuovere la vendita o il trasferimento di beni mobili o immobili, oppure la prestazione di opere e servizi.

In quanto tale, la pubblicità consiste in una pratica commerciale insita e necessaria allo svolgimento dell’attività di qualsiasi impresa e si colloca nell’ambito di quella libertà di iniziativa economica tutelata in primis dalla Costituzione.

Ma fin dove può spingersi la comunicazione pubblicitaria?

Il Codice del Consumo pone il divieto di pratiche commerciali scorrette e aggressive, ovvero quelle che, in contrasto al dovere di diligenza professionale cui è tenuta l’impresa, rispettivamente falsano o sono idonee a falsare in misura apprezzabile il comportamento economico del consumatore medio cui sono rivolte, ovvero vengono praticate con coercizioni, molestie o altre forme di condizionamento indebito.

Il parametro che viene preso da riferimento per tentare di tracciare una linea di confine tra un comportamento corretto e uno scorretto da parte dell’impresa è quindi “il consumatore medio”.

Ma a ben vedere questa definizione risulta essa stessa mutevole e non affatto delimitata.

Nel Considerando n.ro 18 della direttiva CE 2005/29/Ce relativa alle pratiche commerciali scorrette il “consumatore medio” è descritto quale soggetto “normalmente informato e ragionevolmente attento ed avveduto, tenendo conto dei fattori sociali, culturali e linguistici e, soprattutto, dell’esistenza di gruppi di consumatori particolarmente vulnerabili per età, malattia o istruzione”.

I messaggi e le informazioni derivanti da una pubblicità e che vengono percepiti da un pubblico variegato e indeterminato sono quindi soggetti a differenti interpretazioni a seconda del contesto ambientale e sociale in cui ci si trova e al livello di cultura delle persone che li colgono.

E nel mondo odierno in cui l’uso di smartphone, tablet si è diffuso in maniera esponenziale e in cui, comunque, la connessione internet è alla portata di tutti con la conseguente accessibilità a qualsiasi informazione, non risulterebbe necessario parametrare il livello del “consumatore medio” a questo nuovo tipo di formazione culturale?

In tale caso, allora, alcune pratiche commerciali che ad oggi vengono considerate scorrette potrebbero invece rientrare all’interno della scriminante di cui all’art. 20, comma 3 del Codice del Consumo in base alla quale sono fatte salve le pratiche pubblicitarie consistenti in dichiarazioni che non sono destinate ad essere prese alla lettera.

Tra le più recenti pronunce dell’Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato in materia si ricorda la condanna della società Perfetti Van Melle a una multa molto salata per la pubblicità dei chewing gum che decantava le proprietà degli stessi riguardo all’idoneità a garantire l’igiene orale e dentale e in genere a sostituire lo spazzolino da denti, in una maniera, secondo l’Autorità, ingannevole per il consumatore medio.

Caso analogo per Coca Cola, che ha dovuto eliminare dalle proprie campagne pubblicitarie frasi del tipo “caffeina sicura”, ovvero riferimenti che accostavano la bevanda alla frutta o alla verdura.

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